La guerra a casa nostra: i racconti della gente
Il racconto di Ennio Facchini
di Anna Conte
Ragazzetto di 16-17 anni, troppo giovane per l’arruolamento, si ritrova a convivere con i tedeschi che dal fronte di Cassino si erano insediati a Carnello, in vari posti del circondario.
Ricorda con più incisività quelli che erano di stanza in via Madonna della Stella.
Avevano requisito di forza le case di molti abitanti costretti a vivere, quando andava bene, in cantine e rimesse (altrimenti erano costretti a trovare ricovero altrove ed andare “sfollati” verso le colline circostanti) perché i tedeschi abitavano, di norma, i piani alti per poter controllare facilmente la zona e gli arrivi.
Le case occupate erano usate per scopi diversi secondo le loro necessità: in alcune si rifocillavano, in altre avevano attrezzato la medicheria, in altre tenevano le derrate, in altre le divise, in altre ancora avevano il loro quartier generale per il ricambio dei soldati al fronte di Cassino.
Nel palazzo Castiglia c’era lo smistamento postale, mentre nel palazzo Venditti era di stanza fissa il dott. Hermann Dannemayer di Innsbruk che faceva il medico non solo per i suoi soldati ma anche per la popolazione civile di Carnello.
Il ponte raramente veniva attraversato dagli abitanti della riva destra; l’atavico livore era esacerbato dalla politica del tempo che riteneva gli abitanti di Carnello di Sora “collaborazionisti” e gli altri, al di là del ponte, “partigiani” ovvero ostili ai tedeschi.
Il “collaborazionismo” in realtà consisteva nell’instaurare una convivenza pacifica, con i soldati tedeschi, che permettesse qualche possibilità in più di sopravvivenza e di sostentamento in tempi in cui la miseria e la fame regnavano sovrane.
Il giovane Ennio, senza più casa, ridotto a vivere con la sua famiglia di giorno nella cantina di “Olinda” e di notte nel seminterrato, perché il piano di sopra era occupato, cerca di fare amicizia con gli ufficiali di stanza e di rendersi utile.
Si presta a qualsiasi lavoretto pur di racimolare qualcosa da mangiare per sé e per la sua famiglia. Pulire gli stivali al Capitano significava mangiare!!!
Un risotto dolce al latte, che poi magari vomitava, o il pane (brot) o le patate (kartoffel) si racimolavano sempre nel corso della giornata; un filone di pane guadagnato a fine giornata serviva a sfamare l’intera famiglia… Si cercava qualsiasi espediente per quietare il morso della fame, anche il baratto: 3 uova potevano essere equivalenti ad un filone di pane di circa un chilo.
Così pian piano Ennio si guadagna la fiducia dei tedeschi, viene trattato con rispetto, con educazione e con generosità e fa del suo meglio per rendersi utile visto che passa la giornata con loro; fa lo sguattero che mette a posto le brande, l’infermiere insieme al medico, il lustrascarpe per l’Ufficiale più vanitoso…
Ricorda un particolare. I tedeschi per i quali lavorava avevano una casina–orologio austriaca che oltre alle ore segnava il tempo: bello se usciva la donna, brutto se usciva l’uomo. Una volta un soldato sperando nel cattivo tempo per rallentare il ritorno al fronte, alla comparsa della donna sparò un colpo in aria che terrorizzò Ennio e la sua famiglia che dormivano al piano di sotto.
Si era assuefatto a questo tipo di vita che durò circa due anni, fino all’armistizio e al conseguente arrivo degli alleati.
I tedeschi batterono in ritirata e lasciarono Carnello alla chetichella; fecero passare l’ultimo carrarmato e poi bombardarono il ponte.
In breve tempo arrivarono gli americani e gli altri alleati: australiani, neozelandesi, francesi (per lo più coloni marocchini e algerini) polacchi e inglesi.
Ricostruirono il ponte, e si insediarono a Carnello ma non occuparono case. Venivano dal fronte di Cassino e si sistemarono in tende; vi rimasero per poco più di una settimana ma in quel lasso di tempo sfamarono molte persone.
I più generosi erano i neozelandesi.
“Alla loro partenza ci dissero di seguirli verso Arce perché ci avrebbero dato delle vettovaglie , ma i nostri mezzi di trasporto non erano molto efficienti.
Li seguimmo infatti con biciclette senza copertoni, al posto di essi avevamo sistemato dei tubi di gomma – racconta Ennio - e al nostro arrivo si erano spostati; abbiamo trovato gli inglesi ma con loro non c’era da stare molto allegri; invece di darci del pane preferivano bruciarlo con la benzina”.
Cocente fu il ritorno a mani vuote e dura la constatazione di essere così poco considerati; ma la guerra è guerra e non c’è posto ,quasi mai, per i sentimenti altrui! Finita la guerra e sgomberato il paese dai soldati, i cittadini ripresero possesso delle proprie abitazioni. Tornarono gli sfollati, ma la devastazione era grande e la fame più nera che mai.
Molti emigrarono in cerca di luoghi più fruttuosi, altri accettarono lavori precari e misere paghe pur di sfamarsi alla meglio e riacquistare un po’ di fiducia nel futuro.
La guerra aveva lasciato dietro di sé un deserto arido e impervio che solo verso gli anni ’60 poté dirsi superato.
Ennio intanto ha accettato un posto da precario alle Poste senza contratto, senza contributi e con una paga miserrima.
La sua posizione sarà regolarizzata molto più tardi, ricorda con una vena di malinconia che lo intristisce e lo commuove ancora dopo tanti anni…
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